13 Mar 2019

Gorbachev e gli ultimi giorni dell’Unione Sovietica

La testimonianza

Ripubblichiamo di seguito una testimonianza di Demetrio Volcic (1931-2021), storico corrispondente RAI da Mosca negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, pubblicata da ISPI nel 2019.

 

Sono almeno due i padri spirituali di Mikhail Gorbachev: da una parte Jurij Vladimirovic Andropov – già segretario generale del Partito Comunista Sovietico e capo di stato – con il quale per altro ha condiviso una profonda conoscenza dell’opera e del pensiero di Niccolò Machiavelli; dall’altra Anatoly Sobchak, il grande sindaco di San Pietroburgo e protagonista delle riforme.

Una soddisfazione fu il Premio Nobel per la Pace nel 1990. Ma in Russia il consenso per il riconoscimento fu tiepido. Per qualcuno, il Nobel era un tipico premio per i “servi dell’Occidente”. E alla fine, a causa della situazione nel Paese, Gorbachev fu invitato a rinviare il ritiro del premio a Stoccolma.

Era uno dei momenti più critici della storia russa. Il raccolto era pessimo e, spesso, per i lavori agricoli venivano impiegati i soldati. Intanto, né gli specialisti russi né quelli occidentali sembravano possedere la ricetta della ripresa. Sono passati per Mosca, hanno compilato soluzioni, ma il rublo restava debole.

L’ultima riunione in cui provare un nuovo modo di procedere era fissata per il 21 agosto 1991. Il giorno prima Gorbachev era ancora in vacanza a Foros, in Crimea, quando annunciarono una visita da Mosca. Gorbachev tentò di chiamare il suo ufficio al Cremlino, ma i telefoni erano muti. Entrò la delegazione, si conoscevano tutti, vecchi compagni. Lo invitarono a firmare un documento sullo stato di emergenza. Rifiutò. Gliene sottoposero un altro con cui avrebbe dovuto cedere il potere.

Il suo medico si spaventò: aveva ricevuto da Mosca poche ore prima una iniezione per il presidente, afflitto da mal di schiena, per metterlo in condizione di partire l’indomani. E se invece di un antidolorifico fosse stato un veleno?

Tornati a Mosca, gli emissari chiesero a noti medici di firmare una dichiarazione sul peggioramento delle condizioni di Mikhail Sergeevic Gorbachev. Nessuno di loro accettò.

Intanto, intorno alla Casa Bianca decine di migliaia di persone si raccolsero a difesa della Perestrojka, la Russia migliore.

La riunione serale dei putschisti finì male: Il Primo Ministro Valentin Pavlov fu portato via in ambulanza in stato di coma etilico. Anche gli altri non stavano molto meglio, lo riconobbero poi più tardi al processo.

I disordini durarono tre o quattro giorni. Il Parlamento si riunì in plenaria: Boris Yeltsin si stava comportando da vincitore contro un Gorbachev stravolto, arrivato direttamente dall’aeroporto, in giacca a vento. Lo costrinse a leggere in pubblico l’elenco dei rivoltosi, e fu in quel momento che Gorbachev apprese che quasi tutti i cinquanta ministri erano schierati contro di lui, anche se poi più tardi si scoprì che l’elenco dei cospiratori era esagerato e falso.

I problemi non cambiarono, ma la geopolitica alla fine perse d’asprezza. Rapporti con l’Occidente, compromesso con l’opposizione interna, tensione tra le strutture portanti, esercito e KGB, controllo sugli stati satellite: c’erano sempre battaglie cruente all’interno del vertice. Un tempo finivano con la morte o nei lager, metodi che Gorbachev rifiutava. Gli storici hanno dovuto ricostruire gli eventi del passato con l’aiuto delle memorie e della fantasia. Ma la storia non è stata sempre scritta così?

Poi, un giorno, noi giornalisti fummo invitati a Camp David. Nella sala c’era di tutto, ping-pong, calcetto, tavoli da gioco, un piccolo bar e tante poltrone. Ma lo sguardo di noi tutti si rivolse subito altrove: oltre le vetrate c’era il campo da golf con due giocatori. Erano Gorbachev, non un esperto, e il presidente americano George H. W. Bush. Muovevano le loro mazze in modo inconsueto e a tratti ridicolo. Secondo i colleghi che più di me si intendevano della materia, i due stavano parlando di postazioni missilistiche. In particolare, il tema erano gli euromissili: Bush avrebbe dovuto dimenticare i suoi Cruise e i suoi Pershing e Gorbachev i suoi SS-20. Tornato a casa, Gorbachev convocò i suoi esperti nucleari e chiese loro se per caso non avessero tentato di migliorare gli euromissili. Risposero che sì, un poco erano migliorati: ora erano più precisi, più pesanti, più efficaci. Ma erano ancora euromissili? Per gli americani non più. L’accordo sovietico-americano sugli euromissili è stato firmato nell’87 a Washington con il presidente statunitense Ronald Reagan.

Nel luglio 1991 il segretario di Stato americano James Baker si fermò a Mosca. E in quel momento arrivò la notizia che l’Iraq aveva invaso il Kuwait. Sul tema controverso si tentò di arrivare a un comunicato congiunto. Le prime tre versioni furono scartate, mentre per la quarta venne scelta una formula diversa. Così, fu convocata una conferenza stampa, ma senza giornalisti. L’unica telecamera era puntata sui due oratori, mentre il resto della la sala era vuoto. Le dichiarazioni, sufficientemente generiche, furono trasmesse in America, ma non nell’URSS. E gli esperti conclusero che stava vincendo la collaborazione con Washington.

Ma è difficile cambiare gli umori politici.
La rivista russa “Argomenti e Fatti” (tiratura 1.702.559 copie) elabora una speciale classifica: il più popolare del passato è Leonid Breznev, con il 47 percento delle indicazioni. Segue Stalin con il 46 percento. E non sorprende che Putin stravinca con l’83 percento. Nell’elenco degli otto capi da Lenin in poi, Gorbachev e Yeltsin sono invece lontani agli ultimissimi posti. Indifferenza, frustrazione, orgoglio nazionale ritrovato dopo l’Ucraina: oggi è questo il mix del populismo russo, che poi probabilmente non riguarda che metà della popolazione.

Ormai il mondo si abitua a due concetti: perestrojka e glasnost’, riforme strutturali e trasparenza. O procedono insieme o falliscono, diceva Gorbachev.     

Alla fine degli anni ottanta, si festeggiava uno dei tanti anniversari a Berlino Est alla presenza del comunismo mondiale. Erano centinaia di migliaia i soliti cittadini convocati e, sotto il muro, i capi. Quanto durerà ancora il muro? Era la domanda che riecheggiava nella mente di tutti. Il capo di stato della Germania est Erich Honecker rispose: “Se necessario anche cent’anni”. E Gorbachev colse l’occasione per dire che “chi è in ritardo sulla storia pagherà caro”. Il muro crollò pochi giorni dopo.        

Alla fine, nell’addio tra i presidenti, Gorbachev ricevette un edificio per il suo Centro Studi. Avrebbe potuto essere quasi un contropotere, ma non se ne fece nulla, perché ormai mancava lo spazio geopolitico. E proprio lo stesso giorno un funzionario intimò alla moglie di Gorbachev lo sgombero in ventiquattro ore della Dacia.

Nel suo addio alla Tv nazionale, Gorbachev non menzionò Yeltsin e non gli fece gli auguri. Restava aperta la questione della valigetta con i codici nucleari. Senza cerimonie la consegna fu eseguita da funzionari militari e non in forma solenne dai due protagonisti. Fu così che Gorbachev uscì dalla cronaca ed entrò nella storia.

 

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