13 Mar 2019

Gorbachev: il russo che rifiutò di essere zar

Morto l'ex presidente

In Italia, e non solo, Mikhail Sergheevic Gorbachev viene comunemente considerato come una delle grandi figure della seconda metà del XX secolo, un protagonista senza il quale la storia della Russia, e di conseguenza anche dell’Europa e del mondo, avrebbe preso altre e più inquietanti direzioni. I regimi di solito non finiscono in modo indolore, e basta pensare alla fine della Jugoslavia per immaginare cosa sarebbe accaduto se l’Unione Sovietica fosse stata governata, nel momento della sua crisi finale, da un Milosevic invece che da un Gorbachev.

Anche se, come per tutti i politici, non mancano nel suo itinerario errori e contraddizioni, sarebbe ingiusto negare la sua statura morale mettendo in dubbio l’autenticità del suo disegno di un superamento delle storture e delle violenze del “socialismo reale”. La sua fu una profonda maturazione politica iniziata negli anni Cinquanta, quando Gorbachev era studente alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Mosca. Tra i banchi universitari conobbe, divenendone amico, Zdenek Mlynar, che qualche anno dopo sarebbe diventato uno dei principali dirigenti cecoslovacchi della “Primavera di Praga”. Sembra difficile considerare pura coincidenza quell’amicizia fra due giovani comunisti che da allora cominciarono ad interrogarsi sul senso, i limiti e le distorsioni dell’idea socialista. Quando nel 1987 chiesero a Gorbachev quale fosse la differenza fra il suo progetto politico e la Primavera di Praga, lui rispose: “19 anni”.

Ma allora, come mai in Russia Gorbachev risulta oggi disprezzato, anzi spesso odiato? Cosa spiega questa clamorosa divergenza di giudizio fra l’opinione pubblica esterna e quella interna?

Per cercare di comprendere un fenomeno che ci lascia perplessi vale la pena di percorrere le pagine del libro Tempo di seconda mano, di Svetlana Aleksievic, premio Nobel alla letteratura nel 2015 – uno straordinario testo in cui si raccolgono le testimonianze di persone che hanno attraversato i drammatici anni del comunismo e della sua fine.

In quelle testimonianze, la figura di Gorbachev ritorna ripetutamente, e di solito con una connotazione nettamente e spesso rabbiosamente negativa. Qualcuno lo attacca per avere abbandonato il comunismo, “un’idea in cui aveva smesso da tempo di credere” e aggiunge: “Segretamente, o inconsapevolmente, era un socialdemocratico”. Ma il consenso principale verte su un’altra accusa: quella di avere distrutto l’URSS. In Russia la nostalgia più condivisa è quella per lo stato sovietico piuttosto che per il regime: “Non fosse stato per lui vivremmo tuttora in Unione Sovietica…Eravamo una formidabile superpotenza, e la nostra volontà era legge in molti paesi. La stessa America ci temeva”.

Qualcuno addirittura lo condanna per non avere usato la forza nel momento della crisi o chi, addirittura, lo definisce “un Gandhi russo”, “una specie di monaco buddista”, “un profeta, non un capo”.

Ma non si tratta solo delle valutazioni retrospettive di una vicenda storica ormai superata. Per comprendere il motivo dell’impopolarità di Gorbachev in Russia basta elencare le ragioni della popolarità dell’attuale presidente Vladimir Putin. Sotto molti punti di vista Putin è visto infatti come l’esatto contrario di Gorbachev. Per citare ancora una delle testimonianze raccolte da Svetlana Aleksievic: “Noi russi abbiamo bisogno di uno zar. E Gorbachev non ha voluto essere uno zar. Si è rifiutato”.

Vladimir Putin non si è rifiutato di essere un novello zar. Non disdegna la forza. Usa tutti i mezzi perché la Russia possa nuovamente contare. Cerca una rivincita sull’umiliazione che tutti i russi, comunisti e anticomunisti, hanno sentito nel momento della fine dell’Unione Sovietica. Pur essendo erede dello “stile sovietico” (non è difficile riconoscere in lui i segni distintivi dell’ex colonnello del KGB) si ricollega all’“idea russa” che fornisce ancora oggi una forte base identitaria in chiave di continuità al di là dei cambiamenti di regime. Per farlo ha ostentatamente abbracciato la fede ortodossa e ha reso omaggio, prima e dopo la sua morte, al più grande nemico intellettuale del comunismo e più grande sostenitore della Russia Eterna, Aleksander Solzhenitsyn.

Quel Solzhenitsyn che nel 2008, pochi mesi prima di morire, diceva all’ambasciatore americano a Mosca William Burns (come risulta da un messaggio diplomatico pubblicato da Wikileaks) che, mentre Gorbachev aveva danneggiato ulteriormente lo stato russo, già indebolito da settanta anni di comunismo, “con Putin la nazione sta riscoprendo cosa significa essere russi”. E non si tratta soltanto di ideologia. Nel suo saggio pubblicato nel 1990, “Come ridare vita alla Russia”, Solzhenitsyn definiva l’Ucraina “uno stato artificiale” e affermava categoricamente: “Il popolo ucraino non esiste”, esprimendosi a favore di uno stato formato da Russia, Ucraina e Bielorussia con l’aggiunta di territori, da scorporare e annettere, di altri stati ex-sovietici in cui vivano popolazioni russe, sulla base del principio (interpretato in modo simile anche da Milosevic) secondo cui là dove vivono russi è Russia. Esattamente il contrario della visione quasi confederale – patetico tentativo in extremis di salvare lo stato sovietico – che Gorbachev formulò nel 1990 in esplicita polemica con la proposta di Solzhenitsyn.

Forse un giorno, superata l’attuale egemonia del nazionalismo autoritario di Putin, il popolo russo arriverà ad una visione più equilibrata, anche se non priva di giustificati elementi critici, della figura di Mikhail Gorbachev. Ma dovrà passare molto tempo.

 

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