13 Mar 2019

Mikhail Gorbachev, un visionario sfortunato

Morto l'ex presidente

Protagonista dell’ultimo ventennio del secolo scorso in un periodo di tensioni politiche e rischi militari, artefice della fine della Guerra fredda (con buona pace dei reaganiani…), Mikhail Gorbachev non trova ancora il suo posto nella galleria dei grandi attori della storia contemporanea. L’ultimo presidente sovietico è conteso in patria e all’estero tra estimatori e detrattori, tra chi gli rimprovera di aver distrutto l’URSS e il suo partito comunista e chi esalta il disegno di riforma dello Stato comunista di Lenin verso la democrazia e il mercato. Non manca chi ne loda l’abrogazione della “dottrina Brežnev” e il conseguente crollo del muro di Berlino e chi critica la sua scarsa sensibilità per i nazionalismi compreso quello grande-russo. Si dibatte, infine, tra chi ne condanna la rinuncia al disegno di supremazia militare e chi gli riconosce la paternità e il lungimirante lancio degli accordi nucleari con Washington necessari per costruire la pace mondiale in un equilibrio stabile e tendenzialmente denuclearizzato.

Mikhail Sergeevic, uomo di contraddizioni che ha cambiato la storia. Prodotto del sistema sovietico, politicamente vicino al riformismo di Andropov e amico dei riformisti della “primavera di Praga”; passato dal trattore del Kuban agricolo alla laurea in legge a Mosca e alle buone letture; ragionatore più che trascinatore di folle; impopolare per l’accento provinciale che i russi, puristi appassionati della loro lingua, gli hanno sempre rimproverato, come la battaglia contro la vodka; uomo di audaci visioni politiche umaniste, di disegni ideali non privi di realismo, tanto da scrivere nel 1989 sulla Pravda che “il futuro non può essere frutto di sogni: nasce dalla realtà”.

Più popolare all’estero che in patria. Rammento ancora il trionfo a Milano con la gente che gremiva la Galleria e si sporgeva dalle finestre a conclusione della visita in Italia (e in Vaticano) nel novembre 1989 quando giunse a chiedere al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e al Presidente del Consiglio Giulio Andreotti “il sostegno di Roma per la costruzione della nuova Europa”, l’ardito disegno di una “casa comune europea” in cui trovasse posto, riformato, l’antico Paese degli zar e dei Soviet. Nei confronti dell’Italia, del resto, Gorbachev ebbe sempre sentimenti di grande amicizia e gratitudine per l’apprezzamento che per tempo il nostro Paese aveva manifestato per le sue riforme. Alla grande esposizione “Italia 2000” del 1988 il Presidente del Consiglio Ciriaco De Mita aveva portato a Mosca mezzo governo e le principali personalità della scienza e dell’economia: nella gigantesca Fiera di Mosca, il leader sovietico si fermò per un’improvvisata colazione nel padiglione della FIAT e della Ferrari.

Le iniziative di politica estera, disarmo e controllo degli armamenti sembravano a tratti far premio sulle riforme interne lanciate nel 1988. Dopo Reykjavik e il trattato INF per lo smantellamento degli armamenti nucleari intermedi, l’incontro con George H.W. Bush a Malta alla fine del 1989 rafforzò un processo negoziale che avrebbe portato nel 1991 al primo trattato START sulla limitazione delle armi strategiche e allo START II, firmato poi da Boris Yeltsin nel gennaio 1993.

Il processo di riforma gorbacheviano – la perestrojka e la glasnost nel “nuovo pensiero” politico – con una certa libertà d’informazione e l’introduzione di forme di proprietà privata che avrebbero fatto inorridire Lenin, procedeva a rilento nella resistenza dei burocrati del sistema sovietico e dei boiardi delle colossali imprese statali e del “complesso militare-industriale”. Dopo una pur modesta riforma elettorale parlamentare per il Congresso dei Deputati del Popolo, con l’elezione del Presidente dell’URSS aumentarono i poteri del Cremlino in mezzo alle proteste, mentre crescevano le inquietudini delle nazionalità non russe che pian piano si sarebbero trasformate in rivolte, poi represse nel sangue come a Vilnius e negli altri Paesi baltici l’anno seguente. Gorbachev ricorse a un rimpasto del governo chiamandovi gli esponenti della linea dura che avrebbero più tardi partecipato al colpo di Stato contro di lui nell’agosto 1991. Mentre Yeltsin era ormai il principale oppositore-competitore, il progetto di rinnovamento dell’Unione Sovietica venne rifiutato da sei repubbliche baltiche e caucasiche mentre aumentavano le manifestazioni pubbliche anche a Mosca. Gorbachev tentò a Novo Ogorevo la ricomposizione politica con Yeltsin e i presidenti di alcune repubbliche: il suo disegno di riforma si basava su un piano economico per l’Unione Sovietica trasformata in unione politica di repubbliche indipendenti – diversa cosa era per i russi la sovranità – parti di uno Stato centrale dotato di difesa e politica estera comuni e di un mercato senza frontiere, un progetto ancora vago che, riteneva, avrebbe potuto salvare l’unità del Paese.

Affidato a due economisti di tendenza liberale, Stanislav Shatalin e Grigory Yavlinskij, il piano del passaggio all’economia di mercato, detto “dei 500 giorni” dal periodo previsto per la trasformazione che richiedeva un contributo finanziario occidentale stimato in parecchi miliardi di dollari, fu via via annacquato. La presidenza britannica del G7 aveva segnalato infatti al Cremlino che non vi erano disponibilità finanziarie di tale grandezza, ma che sarebbe stato possibile esprimere a Gorbačёv un chiaro appoggio politico. Al G7 del luglio 1991 i buoni sentimenti e i discorsi politici prevalsero: invitato al vertice di Londra, il Presidente dell’Unione Sovietica argomentò e ascoltò, ma tornò a Mosca senza che il consesso avesse prodotto impegni concreti.

La situazione in URSS, dunque, precipitò presto nell’agitazione generale in un’incredibile confusione tra le forze che si opponevano alle riforme e quelle che le reclamavano a gran voce: meno di due mesi dopo, un colpo di Stato avrebbe posto fine all’esperimento di Gorbachev. Decretato lo stato d’emergenza il 19 agosto, otto esponenti dei vertici del partito, del governo, delle Forze Armate e del KGB riuniti in un comitato “d’emergenza”, deposero il presidente dell’URSS per “motivi di salute”: il vice presidente Gennady Yanaev assunse i suoi poteri. Una delegazione dei congiurati si recò subito a Foros in Crimea da Gorbachev per imporgli di dare le dimissioni. La richiesta fu fermamente respinta: il presidente era ormai prigioniero dei golpisti.

Anziché svilupparsi in tragedia, il “golpe rosso” si trasformò ben presto in farsa. Alla televisione, nella conferenza che annunciava il colpo di Stato, buona parte degli otto golpisti sembravano esser stati non troppo lontani dalla bottiglia. Mosca fu occupata dalla divisione territoriale, anziché dalle truppe del KGB, da giovani carristi imberbi, cioè, che si guardavano attorno smarriti. Il golpe si sgonfiò, fortunatamente senza scontri e con solo tre vittime. Liberato e tornato a Mosca dopo che Yeltsin ebbe animato l’opposizione popolare ai congiurati salendo sull’ormai celebre carro armato, Gorbachev tentò di salvare le riforme di struttura a cui legava il suo destino e ingaggiò con il presidente della gigantesca Federazione Russa e quelli delle altre repubbliche sovietiche un dialogo sulla nuova struttura dell’Unione.

Nel tormentato autunno 1991, tra le pubbliche manifestazioni di sostegno e apprezzamento da parte di tutti i governi del mondo per l’opera di Gorbachev da un lato e, dall’altro, tra referendum e proclami nella sorniona ipocrita cospirazione di Yeltsin, dell’opposizione e dei “baroni” delle repubbliche, andava in scena nel teatro sovietico la giornata degli inganni.

La conclusione era ormai alle porte. L’8 dicembre, nella foresta di Belovez vicino alla fatidica Brest-Litovsk, i presidenti della Russia, della Bielorussia e dell’Ucraina dichiaravano che “l’Unione Sovietica aveva cessato di esistere” e proclamavano la creazione della “Comunità di Stati Indipendenti”. Si accodavano, man mano, gli altri fino al 21 dicembre segnando così la fine del disegno istituzionale e della stessa vita politica di Gorbachev.

Nel pomeriggio del 24 dicembre, vigilia di Natale per noi, andai a trovarlo, ancora al Cremlino nel suo studio, per consegnargli un messaggio del mio governo. Con il collega Aldo Amati, perfetto conoscitore della lingua russa, trascorsi con Michail Sergeevic e con Anatoli Cernyaev che lo assisteva un’ora in cui l’ormai ex-presidente ripercorse la sua ordalia con toni mesti quanto intellettualmente e moralmente fermi, sicuro di aver combattuto la buona battaglia “aggredendo frontalmente il totalitarismo, cosa difficile perché i suoi germi sono diffusi in tutto il tessuto sociale e radicati nella coscienza collettiva: ciò che rende ardue le riforme e le trasformazioni”. Concluse chiedendomi di esprimere al governo italiano la sua gratitudine per quanto Roma aveva fatto “per la Russia”. Raccolte le carte, mi accompagnò attraverso la schiera dei collaboratori raccolti per il suo congedo.

Il giorno successivo, Natale 1991, dopo il commosso ma composto messaggio di addio alla televisione dell’ultimo presidente sovietico, la bandiera rossa con la falce, il martello e la stella fu ammainata dalla sommità del palazzo del governo del Cremlino e il tricolore russo venne innalzato a garrire al suo posto.

Eroe tragico del nostro tempo, statista di buona fede e di grande visione politica, Mikhail Sergeevic Gorbachev riceverà dalla Storia il riconoscimento che gli spetta, ben più alto del premio Nobel per la Pace che gli fu concesso nel 1990 “per il ruolo guida nel processo di pace che oggi caratterizza parti importanti della comunità internazionale”.

Quanto è accaduto dopo di lui, dal caos di Yeltsin a Vladimir Putin, alla “verticale del potere” e alla politica estera assertiva, è dinanzi ai nostri occhi: ma il sistema che governa la Federazione Russa non è più quello sovietico e la Russia non è l’URSS. Non poco dell’irrealizzato disegno di Gorbachev torna alla nostra mente con nostalgia per quello che avrebbe potuto essere lo scenario del mondo. Forse la congiura delle circostanze ha arrestato – chissà, rinviato – un processo troppo ardito, forse era prematura la visione riformatrice di Mikhail Sergeevic. 

Qualunque sia l’ipotesi che la storiografia esaminerà quando tutti i fatti saranno noti, saremmo portati a rammentare che, purtroppo, il presidente sovietico aveva ignorato il monito di Tocqueville che “l’antico regime non fu mai tanto in pericolo come quando cercò di riformarsi dall’interno”.

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